Ciò che le nostre esistenze desiderano sopra ogni cosa, è invece l’esperienza dell’alterità, dell’ulteriorità, dell’altrimenti che io.
«Un immenso vuoto — dice Qohelet — un immenso vuoto, tutto è vuoto»[1]; «C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Guarda, questa è una novità”?» (Qohelet, 1,2.10)
Carissime e carissimi,
potrà sembrarvi strano che, in coincidenza con la festa del Natale, festa carica di gioia, festa per eccellenza dell’inatteso e dell’inedito, dell’irruzione della storia (chairos) nel tempo (chronos), mi rifaccia nel formulare i nostri auguri a quel mesto controcanto di ogni possibile canto natalizio, che è il libro del Qohelet. Questo enigmatico poemetto databile al III sec. a.c., nato dalla desolazione della Palestina ellenizzata, racconta del tempo che ricade inerte su di sé, senza alcun frutto né progresso.
L’habel habalîm, la vanità di vanità che forma il refrain ossessivo del Qohelet, traducibile con totale vacuità, fumo e refolo di vento, oppone ossessivamente a tutti i progetti del desiderio umano il suo asciutto contrappunto. Non suona questo stesso contrappunto alle nostre orecchie contemporanee come la più autentica preghiera laica, il canto che incornicia la nostra epoca del mondo? Non è qui che troviamo la radice dei nostri più sottili patimenti, laddove anche noi sondiamo il limite dell’assenza di scopo in cui si è aggrovigliata l’anima del mondo?
Qohelet canta la desolazione dell’Io, e disincanta le sue mire di soddisfacimento perpetuo, in cui non ritrovando altri che sé stesso, sperimenta l’assenza stessa del fondamento: una sazietà senza fame, un andare senza orizzonti, una conquista senza ulteriorità, un falso movimento che riporta sempre circolarmente a sé. Perciò la sua voce ci suona tanto familiare.
Produzione, consumo, profitto, cioè la nostra ruota dei dannati, cioè un intero paradigma economico e sociale che permea in termini di cultura diffusa le nostre esistenze, sono incastonati nel canto di Qohelet. Il nostro è ancora, ma non ancora a lungo, un tempo che pensa in termini quantitativi il proprio futuro, nella pura direzione di un accumulo illimitato di mezzi in assenza di scopi. E Qohelet è l’eterno ospite inquietante (benvenuto sia!) delle nostre esistenze, colui che viene a rammentarci l’essenza nichilistica di questo movimento biologico, ma ben poco vitale.
Perché ciò che le nostre esistenze, e io credo anche la nostra psiche, desiderano sopra ogni cosa, è invece l’esperienza dell’alterità, dell’ulteriorità, dell’altrimenti che io. Esperienza così a portata di mano e insieme così remota, perché sempre nel segno del trauma, dell’interruzione dei progetti di piccolo mondo ammobiliato che ci formiamo a misura dell’ego. Bisogna che questi si interrompano perché l’Altro irrompa. Davvero non si esce all’aperto senza fatica!
Ma è qui, in questo trauma, in questa scoperta del fondamento infondato dei nostri progetti, il nocciolo dell’esperienza messianica. Così ci appare il Natale sotto la scorza dura di tutte le sue retoriche consumeristiche, questo Natale in particolare: emergenza fragile, disillusione in cui appare il limite in cui sono iscritte le nostre esistenze – i semplici “fili d’erba” dice con felice intuizione Zerocalcare – ai cui confini è però possibile che balugini luce. Ma non dove e come l’attenderemmo: «Dio», scriveva Lévinas, «il Desiderabile, mi ordina a ciò che è il non-Desiderabile, all’indesiderabile per eccellenza, ad altri. Il rinvio ad altri è risveglio, risveglio alla prossimità la quale è responsabilità verso il prossimo, fino alla sostituzione ad esso» (E. Lévinas, Di Dio che Viene all’Idea).
C’è un’intera storia segreta di sconfitti, marginali, crocefissi che interrompe e decompleta, e perciò redime, la nostra storia. Non perché espiano per noi una colpa, ma perché provocano anzi comandano a noi un’uscita: il Natale è questa sorprendente direzione di marcia del messianico stesso, da sé all’altro, che non offre ai nostri sensi altra traccia di possibile redenzione che la più completa inermità, il di più nel di meno, di un bimbo nudo, fuggiasco e povero, che chiede di essere accolto: «Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Luca 2,12).
Qui la trasformazione del mondo è a portata di mano, la sua redenzione è possibile, e passa per l’estroflessione dello sguardo, guidata dall’aggiustamento di poche fibre dell’animo: «… Quando verrà il Messia, di cui un gran rabbino ha detto che non intende mutare il mondo con la violenza, ma solo aggiustarlo di pochissimo» (W. Benjamin, Saggio su Kafka).
Che questo “aggiustamento”, questa commozione per l’altro, capace di fondere il cuore in petto, ci giunga come un dono, per noi e per le nostre comunità.
È il mio e nostro augurio di buon Natale, a tutti noi!
Antonio Finazzi Agrò, presidente de La Nuova Arca
[1] Adotto qui la traduzione di Qohelet 1,2 proposta da Gianfranco Ravasi in G. Ravasi, Qohelet