Senza mancanza, e senza attesa, non c’è relazione. E senza relazione non c’è vita.
Il mondo è in disordine. La coscienza umana è in disordine.
Il nostro cuore, spesso, lo è, trascinato in giro e quasi stordito dai fumi di un desiderio contemporaneamente troppo esigente e troppo esaudito, ormai infiacchito al punto da non sapere più a quale oggetto, a quale termine votarsi, dopo essersi nutrito di tutti i beni possibili, di tutti quelli che gli sono stati suggeriti, riempiendo delle scorie di una faticosa digestione, materiale e spirituale insieme, il mondo che lo circonda.
Quanti di noi oggi in fondo, inconfessatamente, non sperano altro che una supertecnologia, a guisa di mano invisibile, assuma il controllo definitivo sulle nostre vite, ci indichi la strada, regoli le nostre scelte e le nostre pulsioni, attenui le nostre angosce e indirizzi il nostro desiderio orchestrandolo con quello dell’intera collettività?
Lasciar fare e, in un certo senso, dimettersi dalla vita…
È la conseguenza psichica, sociale e spirituale inevitabile di una vasta, imperativa crapula che ha disordinato il mondo, da un lato mettendo seriamente in questione la possibilità dell’esistenza umana sul pianeta, dall’altro esponendo la vita individuale a un abisso di insensatezza, per le aspettative irrealistiche di autorealizzazione, peraltro così ingiuntive e perentorie, che impone a ciascuno.
Una tradizione figurativa molto antica riferita alla Natività, continuativamente testimoniata dall’iconografia bizantina e russa, congiunge nascita e morte del Cristo in un comune motivo rappresentativo: il bambino è raffigurato disteso su una pietra, in una grotta scavata nella roccia che esplicitamente allude al sepolcro, avvolto in fasce che richiamano le bende funerarie. Questa tradizione spirituale avvince in un’inclusione il mistero della salvezza cristiano, disteso nell’arco teso tra Incarnazione e Resurrezione.
Anche la devozione popolare, inaugurata dal presepe francescano, propone all’attesa dell’Avvento una culla vuota, che ricorda quel sepolcro vuoto al centro della fede nella Resurrezione.
Vita e morte, pieno e vuoto, ricchezza e povertà si richiamano in questa tradizione che ci apprestiamo a vivere, e si implicano vicendevolmente. Si citano e si presuppongono, quasi che un versante e l’altro dell’esistenza umana non potessero essere pensati e interpretati al di fuori dell’altro.
Nessun peana della povertà.
La miseria, l’esclusione, la precarietà di vita, le privazioni di casa, lavoro, opportunità educative, sicurezze minime che coinvolgono migliaia di persone nel nostro paese e nella nostra città, e tra queste donne e bambini, meritano ogni accanita lotta, ed esigono ogni denuncia.
Tanto più quando, come oggi ma forse come in ogni tempo, non sono affatto frutto della fatalità e del caso, ma conseguenze di quello stesso disordine del desiderio che, imperando all’individuo l’accumulo di beni, svuotano la comunità di ogni bene.
Ma c’è una mancanza, una “povertà”, che prorompe nella coscienza umana col grido squisitamente avventizio del “Maranathà”, atta a plasmare le nostre esistenze come il cavo vuoto di una mano.
Senza mancanza, e senza attesa, non c’è relazione. E senza relazione non c’è vita.
Lo portiamo letteralmente iscritto nella nostra stessa carne, in quella ferita originaria del corpo che è il nostro ombelico.
E, d’altro canto, la lotta pacifica che intentiamo contro la povertà economica e sociale che ci circonda e inquieta tanto profondamente, costringendoci all’azione, è lotta per il legame, per la connessione, per l’insieme.
Un insieme di “io” con “altri” e tutti, che genera ogni bene.
Un coro di attese, di mani vuote che invocano prossimità e volti, come luogo di custodia, integrità e salvezza.
Con le luminose parole del poeta Mario Luzi:
Di che è mancanza questa mancanza,
cuore,
che a un tratto ne sei pieno?
di che? Rotta la diga
t’inonda e ti sommerge
la piena della tua indigenza…
Viene,
forse viene,
da oltre te
un richiamo
che ora perché agonizzi non ascolti.
Ma c’è, ne custodisce forza e canto
la musica perpetua… ritornerà.
Sii calmo.
(Mario Luzi, «Di che è mancanza questa mancanza», da “Sotto specie umana”)
Allora, care compagne e compagni di strada de La Nuova Arca, che questa essenziale e liberante povertà ci sia donata, e scateni l’emancipazione della vita da ciò che realmente la immiserisce: il riferimento di sé soltanto a sé, l’accumulo dei mezzi senza fine, e senza fini, la bassa creatività, il gesto ripetuto e ormai stanco della produzione e quello sfinito del consumo.
Ci siano date invece in ogni giorno, anche nei più faticosi, le qualità eminentemente relazionali della gioia, della fiducia, dell’entusiasmo, della sorpresa e dello stupore.
Auguri e coraggio, abbiamo da ereditare il mondo!
Antonio Finazzi Agrò, presidente de La Nuova Arca