La pace è la più seria e impegnativa delle pratiche umane, ed è tutta intessuta di confronto con la realtà.
Cari amici e care amiche,
mai avrei, mai avremmo immaginato in questo capovolgimento della storia di veder la pace, e chi chiede pace, sul banco degli imputati.
Il senso comune, o la sua controfigura, posto di fronte a un’insensata e ingiusta aggressione oscilla, sbanda, e infine approda con poche eccezioni alla legittimazione della violenza, come unica risorsa arginante l’altrui violenza.
Nel frattempo si moltiplicano e coalizzano parole pronunciate e scritte piuttosto concordi, per non dir monotone, che stigmatizzando il dubbio o l’obiezione di fondo di chi non intravede nella corsa al riarmo, peraltro presa d’un lampo, la soluzione né di breve né di lungo periodo al conflitto attuale e a tutti quelli che verranno, finiscono per compilare lunghe liste di proscritti, tutti appartenenti allo stesso campo, tutti ugualmente sospetti di intelligenza col nemico. Un campo molto largo, che abbraccia il Papa e l’ultimo dei terrapiattisti.
È la pace e il suo pensiero mite e disarmato sotto accusa, da un lato; è la nebbia della guerra, la dannata corsa a precipizio verso la polarizzazione da algoritmo social dall’altro.
Tra le accuse al pensiero di pace ce n’è una che occorre smentire, a Pasqua e in nome della Pasqua. Chi coltiva la pace in sé e con gli altri non è né un cultore di ideologie astratte per non dire oziose, né uno sprovveduto che rifiuta la realtà storica.
La pace è la più seria e impegnativa delle pratiche umane, ed è tutta intessuta di confronto con la realtà; non si risolve in una pia evasione dal mondo, ma è piuttosto cognizione del dolore e impegno trasformativo, cioè realismo al suo grado più puro.
Come ogni Pasqua la pace ha il suo venerdì santo, che è esperienza della sconfitta irrimediabile e del fallimento, e il suo sabato santo, che è immersione sotto la crosta del mondo, nelle sue tenebre. È solo da questa discesa, da questa “katabasi”, da questo confronto corpo a corpo con l’angoscia e la morte – e ognuno ha la sua, ogni società ha la propria – che la pace può sorgere vittoriosa il terzo giorno: Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello…
La pace è anzitutto un lavoro interiore di ciascuno con sé, e quindi è un lavoro collettivo sui processi profondi, consci e inconsci delle società e dei gruppi che abitano il mondo, sulle loro rappresentazioni e le loro ataviche, ancestrali paure.
Il lavoro è trovare il mandante occulto, in noi e nei processi culturali di cui siamo parte, della violenza, dell’odio, dello sterminio e di tutte le atrocità che si consumano su questa terra, poterlo finalmente guardare negli occhi e, forse, liberarlo dalle stesse ossessioni in cui è imprigionato e in cui ci imprigiona. Il lavoro è conoscerlo e riconoscerlo, placarlo se possibile, e poi smettere una volta per sempre di ascoltare i suoi consigli, che appaiono sempre così ragionevoli, così sensati. E così distruttivi.
Il lavoro è imparare a ridurre al minimo la violenza, se non è già possibile impedirla del tutto, come si è appreso (con fatica, e imperfettamente) a fare in ogni società avanzata, e prevenirla, estirpando quel seme di violenza radicato in ogni società che è l’ingiustizia e la diseguaglianza, ovunque in crescita nel mondo e, detto per inciso, ben insediato anche nei nostri avanzatissimi paesi.
Il lavoro è imparare a cooperare con le altre società – vogliamo dire di quanto l’Africa intera costituisca al momento attuale per noi tutti un gigantesco rimosso? – e costruire reti sempre più larghe dentro e tra le nazioni perché smettano finalmente di essere quel che ancora sono, e cioè un gradino poco più evoluto di anacronistiche aggregazioni identitarie e tribali, tenute insieme al proprio interno da interessi di parte e all’esterno inferocite le une con le altre.
Il lavoro è smettere di graduare la prossimità per convergenza di interessi, identità culturali o, peggio, colore della pelle, e imparare a sentire in noi stessi ogni guerra combattuta in ogni angolo del mondo come un’intollerabile offesa al diritto dei popoli, esigendo al riguardo la più completa informazione dai nostri media. Il lavoro è pretendere dai nostri stati e da chi li governa l’impegno senza ambiguità per istituzioni sovranazionali più solide multilaterali e credibili, sanzionandoli impietosamente col voto e la protesta se deviano, soprattutto in tempo di pace, dagli scopi di pace. Scopi che sono ordinariamente perseguibili solo con gli strumenti della cooperazione, non certo con le armi e le sue industrie.
Il lavoro è, in nome dei valori occidentali sia laici che cristiani, smettere una buona volta di contrapporre identitariamente il campo occidentale a ciò che occidente non è, se non altro memori del fatto che non rappresentiamo che una frazione minima della popolazione mondiale, seppure momentaneamente la più avvantaggiata.
Il lavoro poi è non cessare di sperare, giacché «l’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono» (Ernst Bloch, Il Principio Speranza).
Care e cari, coraggio e buona Pasqua, abbiamo un lavoro impegnativo e bellissimo da fare, pieni come siamo di speranza.
Antonio Finazzi Agrò, presidente de La Nuova Arca