No, non ci bastiamo, fortunatamente; nessuno basta a sé stesso, nessuno si salva da solo.

“Il bello comincia dal terribile.
Devi aver conosciuto le strade terribili
senza aver fatto un passo indietro.
Senza esserti buttato a piangere sugli asfalti.
Devi aver sentito la bocca arsa
dal desiderio di bellezza. […]
Solo allora, all’improvviso apparirà.
E sarà una bellezza da non poterla dire
un mare sfolgorante,
un’esultanza, un vedere alto
che il bello
non è parola astratta
è alfabeto del sangue
è ritmo dei muscoli
è riconoscere degli occhi
è riconoscere quel che è tuo,
il bello è riconoscenza.

(Gianluigi Gherzi, Solare, 2024)

C’è, se interroghiamo la profondità delle nostre intelligenze e del nostro animo, e se acuminiamo lo sguardo sulle cose, un nesso tra disperazione e speranza, tra orrore e bellezza, che non è un vago e consolatorio lasciar dileguare le lacrime.

Il bello comincia dal terribile. Quelle lacrime che salgono al cielo chiedendo giustizia da Gaza, dalla martoriata Ucraina e da ogni luogo di sopruso e delitto, anche qui tra noi nella nostra città, ci riguardano, e non possiamo negarle in nome di un “altrove”.

No, la vita vera non è distrazione, non è evasione; la vita vera è un corpo a corpo con la realtà del male e della morte.

Dev’essere sepolta là con loro, dentro la Storia, nel suo utero percosso dalle violenze degli uomini, ma anche scosso dalle doglie del parto.

Forse, per sperare, occorre davvero aver percorso solitariamente tutte le strade possibili, e averle trovate cieche, interrotte e senza meta. Devi aver conosciuto le strade terribili.

Bisogna che tutte le vie dell’Ego siano state esplorate, che la promessa così contemporanea della felicità fondata sul conflitto e sulla negazione del legame con altri sia stata messa alla prova fino in fondo. Apprendere che la morte è storia dell’Io, e la vita storia del Noi, non può che essere frutto di un fallimento, e di un conseguente sussulto dell’esperienza.

La tradizione neotestamentaria segnala questo scarto, questo shock dell’esistenza con una speciale forma verbale, l’aoristo passivo, noto tra gli esegeti come “passivo teologico”: Cristo secondo la testimonianza dei Vangeli, degli Atti e di Paolo non resuscita, ma “è stato resuscitato”.

La vita che sopprime la morte, suggerisce questa traccia grammaticale, si rivela in lui come iniziativa di un Altro. Mette radice nella sua consegna volontaria in mani altrui, al Padre certo, ma anche all’umanità dei suoi amici, delle sue sorelle e dei suoi fratelli, e persino dei suoi aguzzini: li amò sino alla fine. Una consegna che è una passione, ma anche uno squarcio dal chiuso all’aperto, l’accesso a un varco. Nel minimo il massimo.

Quante e quanti di noi non fanno esperienza proprio di questo: nel limite, nella radicale insufficienza di sé che mille e mille volte sperimentiamo, molto più realistica di tutte le mistificazioni consolatorie così tipiche della nostra contemporaneità, balugina la possibilità della compagnia e della comunanza con altri, e così di una rinascita.

Si apre una strada non più solitaria; è la strada che i poveri, soprattutto, frequentano e conoscono, anche solo sulla spinta del bisogno, e in cui possono immetterci se lo vogliamo.

No, non ci bastiamo, fortunatamente; nessuno basta a sé stesso, nessuno si salva da solo.

Le nostre esistenze calcolate a misura dei nostri piccoli desideri e delle nostre singole forze si schiantano e contraddicono prima o poi, tra conflitti e sensi di colpa. Occorre intraprendere una strada di popolo, legato, l’un per l’altro, nella sua natura insieme singola e molteplice, dove l’unità è istituita con la differenza, dove tutto si tiene insieme, e il proprio e il comune riposano fianco a fianco.

È il popolo della promessa, costituito da coloro che “spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra” (Isaia 2,4).

Un sogno tenero ma audace, visionario ma possibile, se insieme osiamo sperarlo: una bellezza da non poterla dire.

Auguri amiche e amici, sosteniamoci l’un con l’altro, l’un con l’altra in questa speranza!

Con affetto,

Antonio Finazzi Agrò, presidente de La Nuova Arca